Il presidente della Pontificia Accademia per la vita e del Pontificio istituto "Giovanni Paolo II" rievoca il suo lungo tratto di strada assieme a papa Francesco, anche con alcuni episodi curiosi: «Era convinto che San Valentino fosse soltanto una ricorrenza mondana per i fidanzati. Portai trentamila giovani in San Pietro e cambiò opinione»
Un lungo tratto di pontificato accanto a papa Francesco, con un compito da far tremare i polsi. Rendere coerente con il magistero del Papa l'insegnamento della Chiesa sui fronti della famiglia e della vita. Tanto più difficile e complesso in un'epoca che cambia e sembra ribaltare, proprio a partire dalla generazione e dalle relazioni affettive, abitudini e norme.
Da questo osservatorio privilegiato ma scomodo, l'arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita e gran cancelliere del Pontificio Istituto teologico "Giovanni Paolo II" per le scienze del matrimonio e della famiglia, racconta il suo rapporto con Bergoglio, un lungo tratto di cammino insieme che l'ha visto sperare e lottare, pregare e progettare insieme a lui per una Chiesa più viva, più inclusiva, più aperta al mondo e alle speranze di tanti fedeli.
Monsignor Paglia, qual è l'insegnamento di papa Francesco che non potrà mai dimenticare?
La sua passione per l'umano ispirata direttamente dal Vangelo. Ricordo ancora una sua frase: compito della Chiesa è la salus animarum, la salvezza della gente, tutta la gente senza escludere nessuno.
Lei è stato accanto a papa Francesco per tutto il periodo del pontificato. Tra i documenti di Francesco, quale a suo parere rappresenta davvero una svolta decisiva per la Chiesa?
Il programma del Pontificato è racchiuso nell'Evangelii Gaudium: una Chiesa che esce da se stessa e si china sulle ferite del mondo, sull'esempio del Buon Samaritano. E poi le sue altre due encicliche, quella sul creato, la Laudato sì' e quella sulla fraternità umana, la Fratelli tutti. Sono due encicliche legate l'una all'altra. In un mondo in cui mancano le visioni globali e ognuno è come ripiegato su di sé, papa Francesco ci offre una visione chiara: il pianeta come casa comune e i popoli come un'unica famiglia che deve custodirla e abitarla fraternamente.
Da quasi dieci anni guida la Pontificia Accademia per la vita e il Pontificio Istituto "Giovanni Paolo II", due avamposti che vedono la Chiesa sulle frontiere della generazione e delle relazioni umane. Cosa le ha detto il Papa al momento della nomina?
Papa Francesco mi affidò la guida delle due istituzioni chiedendomi di ampliarne gli orizzonti: promuovere la dignità della vita in tutto il suo arco, sia nelle diverse età che nelle diverse condizioni e considerare la famiglia come una realtà storica complessa che andava compresa e aiutata. Si è trattato anzitutto di ampliare il concetto di "vita umana" diretto verso un nuovo umanesimo planetario. E superare la divisione tra i cosiddetti valori non negoziabili e gli altri. La vita va difesa sempre in tutte le situazioni. E per quel che riguarda la famiglia si è trattato di avviare una teologia della famiglia fino ad ora molto parziale per allargarla alla ricchezza delle sue relazioni.
Come ha vissuto, al vertice del Pontificio Istituto teologico "Giovanni Paolo II", gli attacchi arrivati a Francesco per il capitolo VIII di Amoris laetitia?
Il Papa era rattristato?
Preferisco raccontarle un piccolo episodio, marginale, direi, ma utile per capire l'atteggiamento di Papa nel guardare sempre oltre. Mancavano pochi giorni all'udienza per i fidanzati del 14 febbraio, festa di San Valentino. Il Papa (e qualcun altro) voleva cancellarla: è una festa mondana, mi disse. Gli risposi che non era solo questo. E gli raccontai i pellegrinaggi dei fidanzati a Terni, quando ero vescovo della diocesi, dal 2000 al 2012, per visitare la salma di San Valentino (è il protettore della città), per chiedere al Santo di aiutarli a fare in modo che il loro amore fosse eterno. E così dissi al Papa che dovevamo raccogliere questa sfida, rispetto all'amore liquido che si dissolve alla prima difficoltà! E fu una festa straordinaria con più di trentamila fidanzati in piazza San Pietro che espressero al Papa tutta la loro festa. Quanti mi chiesero di continuarla! E Papa Francesco comprese benissimo il messaggio.
Quanto è stato importante il pensiero di Papa Francesco sugli anziani per sostenere il suo impegno come presidente della Commissione governativa per la riforma socio-sanitaria degli anziani?
Le rispondo con una sola parola: determinante. Le catechesi del 2022 sugli anziani hanno avuto un ruolo di primissimo piano nell'ispirarci a mettere a punto la "carta dei diritti degli anziani e dei doveri della comunità", contro una cultura dello scarto. Il Parlamento ha approvato all'unanimità - lo ripeto e insisto: senza nessun voto contrario - proprio la Legge che prevede l'assistenza domiciliare socio-sanitaria a tutti gli anziani, appunto, a casa, il luogo della vita. È un grande traguardo. Vorrei spingere governo e amministrazioni ad una più sollecita attuazione della Legge. C'è ancora troppa indifferenza. Una buona notizia dal Lazio. Nelle prossime settimane inizia una prima sperimentazione a Tor Bella Monaca, a Roma. Spero che altre regioni si aggiungano.
Proprio il giorno della morte del Papa, lei ha compiuto 80 anni. Era appena nato, terminava la seconda guerra mondiale. Oggi la guerra è ancora tra noi. Eppure questi 80 anni di pace non sono passati invano.
In effetti ci penso spesso. Nascevo in un clima voglioso di pace e di ricostruzione. E ho vissuto 80 anni di pace, per lo meno in Europa. Quant'è diverso oggi! E siamo in tanti a preoccuparci per il clima di riarmo di questi ultimi tempi che non porta nulla di buono.
Lei è entrato in seminario giovanissimo, fin dalla prima media.
Avevo dieci anni, ma ero convinto, mi affascinava la Messa della domenica e il senso di festa della gente che si radunava. Mio zio prete significò molto per me. Anche la mia famiglia, in particolare mia madre.
Quale è stata la reazione dei suoi genitori quando ha rivelato loro di voler entrare in seminario?
Mia madre, il giorno che diventai prete (15 marzo del 1970), mi rivelò che appena sposata disse al Signore che gli avrebbe donato il suo primo figlio! Mi commosse e l'abbracciai. Papà, la sera prima di entrare in seminario mi chiamò: "Vincenzo, vuoi andare il seminario per studiare o per farti prete?" e continuò: "se è per studiare ti mando a Frosinone, non a Veroli...", come dire "alla Sorbona". Gli dissi "vado per farmi prete`: Ero convinto. Anche se avevo solo 10 anni.
Quanto sono stati importanti i tre anni trascorsi a Casal Palocco, all'inizio degli anni Settanta, per radicare il suo impegno di "prete sociale"?
Erano gli anni dell'immediato post-Concilio. Al Laterano avevo vissuto il passaggio da una Chiesa rigida e autoreferenziale ad una Chiesa che riscopriva la Bibbia, la Liturgia e un amore per il mondo. Mi colpì la mitezza di Giovanni XXIII! E poi Paolo VI. Volevo essere un prete "accordato" a quella Chiesa che guardava con amore il mondo, i poveri soprattutto.
Nasce da qui la decisione di sostenere la Comunità di Sant'Egidio?
Il 5 dicembre del 1970 - da settembre stavo in parrocchia ma non vedevo l'attuazione dello slancio del Concilio - incontrai Andrea Riccardi. Compresi subito che in quella realtà ecclesiale, molto vivace e che più avanti si chiamerà Sant'Egidio, si respirava il Concilio con le sue tensioni evangeliche e la voglia di cambiare il mondo a partire dalle periferie. Mi ha segnato per sempre la vita.
Tra i tanti suoi incarichi internazionali a sostegno della Comunità sui fronti caldi del mondo, si ricorda ancora oggi l'intervento in Romania, che ha poi permesso a Giovanni Paolo II di compiere il primo viaggio apostolico in un Paese ortodosso. È stato più difficile convincere il patriarca Teoctist o le autorità politiche?
Erano gli anni di Giovanni Paolo II. Straordinari. Era caduto il muro di Berlino, il Papa sognava un'Europa a due polmoni. Accettò l'idea di visitare per la prima volta un paese a maggioranza ortodossa. Fu difficile convincere il Sinodo della Chiesa Ortodossa Rumena. Ma il grido della folla (più di trecentomila persone) al termine della Liturgia dell'ultimo giorno: "Unitade! Unitade!" era indimenticabile. Ricordo Giovanni Paolo II, in una mia visita al Gemelli, ripeteva più volte quel grido, ancora commosso.
Lei è stato anche il primo prete cattolico ad entrare in Albania prima delle elezioni libere del 1991. Come ha ottenuto la riconsegna del seminario e della cattedrale di Scutari?
Il Paese stava vivendo una crisi drammatica. Con gli amici di Sant'Egidio sentimmo l'urgenza di offrire un aiuto. Era l'unico paese al mondo ateo per Costituzione. Era come senz'anima e, in quel momento, senza futuro. Aveva estremo bisogno di aiuto. Un amore disinteressato e intelligente, teso solo ad aiutare l'intero popolo albanese, facendo cadere ogni pregiudizio: si riaprì il seminario, si ricostruì la cattedrale di Scutari, si aprì la nunziatura e mi chiesero di scrivere l'articolo sulla libertà religiosa per la nuova Costituzione. Chi l'avrebbe mai pensato.
Se dovesse riassumere in maniera del tutto sintetica cosa direbbe del suo episcopato a Terni-Narni-Amelia (2002-2012)?
Penso spesso a quegli anni e resto convinto della scelta che feci: legare la Chiesa e la Città, la comunità cristiana e la società. Di qui promuovere il primato della Domenica e poi - visto il peso delle acciaierie e del polo chimico - un variegato impegno per salvarle e promuoverle. Si trattava di migliaia di famiglie. È stato un amore appassionato, e sono stato accompagnato da molti laici.
Tante sue dichiarazioni controcorrente hanno suscitato polemiche e prese di distanza, anche nel mondo cattolico. Da quella, lusinghiera, nei confronti di Marco Pannella, a quella favorevole al riconoscimento di alcuni diritti nei confronti delle coppie gay. Si è pentito di quanto detto?
Cerco di vivere in prima persona la Chiesa "in uscita" per incontrare tutti. Pannella: mi cercò lui all'inizio (dopo qualche polemica compresa la mia opposizione alle sue scelte sull'aborto, ma non solo). Mi lasciai incontrare: l'impegno contro la fame nel mondo, la lotta per umanizzare le carceri, erano tra i temi delle nostre conversazioni. Nelle sue ultime settimane di vita mi cercava spesso. Verso la fine, mentre stavo con lui, seppe che la croce che portavo al petto era di monsignor Romero, me la chiese e se la mise. Non volle ridarmela. La ripresi dopo la sua morte. L'amicizia vince sempre. Per la questione delle coppie omosessuali, in realtà parlai dei possibili diritti per "convivenze non familiari", come quelle tra tre o quattro anziani.
Come ha preso le critiche di coloro che, alla luce dei suoi già tanti incarichi, hanno detto che non avrebbe dovuto accettarne un altro?
Gli anziani sono una emergenza assoluta. Io faccio parte di questa prima generazione di "anziani di massa" e sento la responsabilità di aiutare un cambiamento di cultura: la vecchiaia da peso a risorsa. Anche noi anziani dobbiamo esserne consapevoli. E chiederci: come essere cristiani da vecchi? Come vivere la nostra fragilità? Come testimoniare l'Eterno che si avvicina, alle altre generazioni che salgono?
Torniamo a papa Francesco. Come è cambiata la Chiesa dopo il suo pontificato?
Quella che Francesco ci ha lasciato è ormai una Chiesa "uscita" dall'autoreferenzialità. Ora abbiamo bisogno di nuova creatività per raggiungere tutti i popoli, portando un messaggio di autentica fraternità universale».
[ Luciano Moia ]