Con una lettera pastorale diffusa il 29 maggio, la Conferenza Episcopale di El Salvador (CEDES) ha lanciato un appello diretto al governo del presidente Nayib Bukele, perchè si eviti la detenzione nelle carceri salvadoregne di centinaia di migranti espulsi. «Chiediamo ai nostri leader – scrivono i vescovi – di non promuovere questo Paese come se fosse una prigione internazionale».
«Queste persone non sono criminali – scrivono i vescovi –. Sono fratelli e sorelle che fuggono da situazioni difficili e cercano una vita dignitosa. Non possiamo, come Paese, contribuire alle politiche di esclusione e repressione delle grandi potenze. La nostra missione è l’accoglienza, non la complicità».
Il riferimento è all’intesa firmata lo scorso febbraio tra Washington e San Salvador, che prevede il trasferimento forzato in El Salvador di migranti irregolari – in gran parte venezuelani – trattenuti negli USA per presunte violazioni legate all’immigrazione. In pochi mesi, sono già oltre 200 i deportati arrivati, la maggior parte dei quali senza precedenti penali, ma destinati comunque al carcere di massima sicurezza CECOT (Centro di Confinamento contro il Terrorismo).
Nonostante i migranti siano descritti come soggetti pericolosi, un’inchiesta della redazione indipendente ProPublica, pubblicata il 30 maggio, smentisce questa narrazione: solo sei dei venezuelani deportati risultano condannati per reati violenti. Tutti gli altri sono persone con la fedina penale pulita, che cercavano opportunità migliori fuggendo da povertà, violenza e instabilità politica.
Il problema, secondo l’episcopato, è che El Salvador vive da oltre due anni sotto stato di emergenza, una misura straordinaria che ha sospeso diverse garanzie costituzionali e normalizzato arresti arbitrari e processi sommari. In questo contesto, i migranti vengono trattati non come richiedenti asilo, ma come sospetti da neutralizzare.
Con questo appello, la Chiesa salvadoregna si schiera pubblicamente contro la crescente militarizzazione del controllo migratorio e contro l’idea che l’America Centrale debba diventare una zona di contenimento. Un richiamo alla responsabilità morale, in un contesto in cui la sicurezza sembra aver preso il posto della giustizia.