Gli intellettuali turchi si interessarono a D’Annunzio ma anche Ignazio Silone È un momento storico che coincide con la latinizzazione forzata dell’alfabetoItalia e Francia erano i punti di riferimento culturali e del gusto della capitale di Atatürk, tra gli anni ’20 e ’30 del ’900 Un ulteriore strato di una città già densa e il cui imprinting dura ancora oggi
Nel 1875 lo scrittore ottomano Ahmet Mithat pubblicò il romanzo Felâtun Bey ve Râkim Efendi (Il signor Felâtun e Râkim Efendi), una divertente parodia di due giovani personaggi che, nella Istanbul della fine del XIX secolo, vivono a loro modo la propria identità: Râkim, uomo erudito, di umili origini ma aperto alla cultura europea; Felâtun, superficiale, istruito alla francese, fannullone e ozioso. Felâtun vendette tutti i suoi beni per farsi costruire una bella casa nelle prossimità di Beyoglu «alla franca», ossia in cemento armato, e con i suoi modi sciocchi e maldestri, perse il suo tempo cercando di imitare le mode e i costumi occidentali, finendo così per rendersi ridicolo agli occhi di tutti.
La storia narrata da Ahmet Mithat è quella dell’amore ottomano per l’Occidente, un amore appassionato, fatto di alti e bassi, intervallato da slanci e arretramenti, incendi e spegnimenti, come sempre accade per tutte le grandi passioni. «Quando sento mancare gli sguardi occidentali su di me – ha scritto Orhan Pamuk –, divento l’occidentale di me stesso». Un libro di nostalgie, dunque, più che di ricordi. In otto capitoli richiama un’intera stagione della storia che, dal tradizionale mondo ottomano, passa in poco più di quindici anni alla rinnovata stagione kemalista (1923-1938).
Si apre la grande riforma, sociale e politica, culturale e umana: il tentativo di trasformare la Turchia in un paese moderno e secolarizzato, laico e nazionalista, con uno sguardo rivolto più all’Europa, mentre il passato ottomano è qualcosa cui si voltano radicalmente le spalle. Cambia anche la scrittura: si abbandona quella osmanli per i caratteri latini. Per una nuova generazione diviene impossibile leggere quanto scritto dai propri padri o dai propri nonni.
Istanbul con le sue moschee, i suoi palazzi, le sue biblioteche e gli affollati bazar, resta, ovviamente, sempre al centro di ogni ragionamento, sia che questo passi per le stupende pagine che Pamuk dedica al Bosforo o che si rientri con la memoria nel fascino polveroso della libreria Akba Kitabevi di Ankara, dove Sabahattin Ali maturò l’idea di tradurre dal tedesco in lingua turca Fontamara di Ignazio Silone. E con Silone si apre la rassegna dei tanti nomi italiani che trovarono sorprendentemente una patria nella lingua turca, nell’arte, nell’architettura e nelle missioni domenicane in Kurdistan e nell’alta Mesopotamia [...].
L’interesse di Sabahattin Ali per Fontamara risiedeva nel fatto che lo scrittore abruzzese, in un certo qual modo, aveva parlato dei miseri «cafoni» abruzzesi simili ai contadini delle sperdute terre anatoliche, così lontani da quella Istanbul che i greci rimasti, i levantini e gli occidentali si ostinavano a chiamare Costantinopoli. «Silone ha ingaggiato una eroica lotta (mücadeleye baslamis) per i lavoratori del suo paese, una lotta – disse Sabahattin – per rendere note le miserie del popolo italiano». Temi questi che stavano a cuore al traduttore turco. Come abbia fatto Sabahattin a rintracciare quel libro non si sa, ma l’originale versione in tedesco del 1933 dovette far parte di quegli interessi letterari che, in quel tempo, molti intellettuali turchi stavano sviluppando anche per altri autori italiani.
Acuto conoscitore della letteratura marxista, socialista impegnato, spesso in contrapposizione con il potere e quindi censurato, Sabahattin non si limitò solo a Fontamara, ma approfondì la conoscenza dell’opera di Silone con Vino e Pane e Il seme sotto la neve. Si rammaricava tuttavia per come lo scrittore italiano avesse deviato con quest’ultimo libro «verso una visione del mondo molto più mistica». Istanbul, città fantasticata da scrittori e viaggiatori, «immutabile locus del hüzun», come scrive Sibel Erol, ossia della «tristezza», della «malinconia». È un concetto incardinato nella scrittura di Pamuk, ma che, in altro modo, fu sentito da Edmondo De Amicis o dall’abate Antonio Stoppani, orientalisti italiani al pari dei francesi Théophile Gautier, René de Chateaubriand, Gérard de Nerval o Alphonse de Lamartine.
Con Costantinopoli, forse il suo miglior libro di viaggio, De Amicis narrò le meraviglie visitate di persona in quei luoghi esotici. Ancor di più fece Stoppani, l’autore de Il Bel Paese, con il suo racconto Da Milano a Damasco. Ricordo di una carovana milanese nel 1874, in cui attinse a un repertorio di immagini che contribuirono alla diffusione dell’orientalismo nella letteratura popolare italiana di fine Ottocento. Un «orientalismo cattolicizzato», venato da un moralismo avverso a taluni usi e costumi locali, in particolare gli harem («cosacce»), ma che di fronte alla meraviglia di Costantinopoli non può non piegarsi a tanta bellezza, affermando che «è una grande tela dipinta su cui appaiono tremuli e vaghi tutti i più bei sogni del fantastico oriente, la città del mondo più bella a vedersi».
Ma Costantinopoli non è solo da vedere, ma anche da costruire, come dimostra il genio italiano di Pietro Montani, tra gli autori de L’architecture ottomane, la prima ricerca che compendia i principi dell’evoluzione storica del linguaggio architettonico ottomano dal XV al XVIII secolo. Montani Efendi, come venne chiamato dai turchi, eseguì i padiglioni ottomani all’Esposizione Universale di Vienna nel 1873 e fu autore, tra le altre cose, della moschea di Aksaray, dedicata alla sultana madre Pertevniyal Sultan nel 1871. Di origini triestine, Montani non fu solo architetto e pittore, ma anche illustratore di periodici francesi, vicedirettore dell’osservatorio astronomico di Costantinopoli, presidente della Società operaia italiana di mutuo soccorso nel 1868-1869, autore di un trattato sulle correnti del Bosforo e di saggi a sfondo teosofico.
Quella di Montani sembrerebbe preludere a una ancora più ampia e diffusa presenza di personalità italiane, come annuncia il capitolo di questo libro dedicato alla Società Dante Alighieri che, a Costantinopoli, fondò nel 1895 un proprio comitato, terzo in ordine di tempo, dopo quello di Salonicco e di Tunisi. La Dante di Costantinopoli ebbe ben diciassette presidenti e fece molti corsi di italiano non solo per turchi, ma anche per armeni, greci, israeliti, slavi, russi, olandesi, svizzeri e tedeschi. Ospitò, tra l’altro, conferenze di D’Annunzio e tanti altri illustri scrittori italiani in un arco di tempo che arriva fino al 1944, dopodiché chiuse i battenti.
Nello scorrere le pagine di questo capitolo non posso non citare alcuni passaggi interessanti, tratti dal difficile rapporto della Dante con il fascismo. Quest’ultimo tentava di trasformare la Società, nata sulla scia dell’irredentismo democratico, in un tentacolo della propaganda del regime. Era soprattutto l’opera del presidente Felice Felicioni, esecutore supino degli ordini del Partito Nazionale Fascista. Bisognava fascistizzare la Dante e così, nel 1938, si arrivò a epurarla – secondo la logica delle leggi razziste – dei suoi soci ebrei (cui, nel 2018, abbiamo moralmente restituito la tessera della Società nelle persone dei loro discendenti).
Scrisse l’allora presidente della sezione di Costantinopoli Luigi Joli al segretario generale Giuseppe Zaccagnini: «Io non permetterò mai che le sorti del nostro comitato siano compromesse e faccio e farò sempre buona guardia, aspettando che la bufera passi». È un esempio della resistenza, poco nota, di alcuni comitati della Dante alla fascistizzazione della Società. E all’estero non era semplice per la sede centrale e il governo esercitare poteri coercitivi. La bufera in qualche modo passò. Lo stesso Angelo Giuseppe Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, delegato apostolico a Costantinopoli dal 1934 al 1944, che nei suoi spostamenti in città vestiva l’abito laico in ottemperanza alle leggi laiche del paese, fece la sua comparsa alla Dante, leggendo passi della Divina Commedia [...]. Questo libro, tra grandi scenari e microstorie, ci porta a contatto con un mondo dove la complessità delle culture e delle etnie, come delle religioni, è un fenomeno secolare, se non millenario. È una complessità che conosce conflitti, ma che obbliga a trovare le modalità della convivenza. Il nazionalismo, che sale dall’Ottocento, esige omogeneità etnica e anche religiosa.
Oggi siamo in una stagione in cui risorgono i nazionalismi, ma – lo si vede a Istanbul, nella stessa Turchia e pure in Italia (un tempo così omogenea) – la realtà è quella del vivere insieme tra diversi. Qui sta una delle radici della fascinazione del mondo ottomano.
Proponiamo in queste colonne ampi stralci della prefazione di Andrea Riccardi al volume Alaturka / Alafranga. Interazioni culturali fra Turchia ed Europa mediterranea, curato da Rosita D’Amora e Stefania De Nardis, pubblicato da Marietti1820 (pagine 240, euro 24,00). Un mosaico di saggi, voci, episodi e figure che, attraverso un viaggio tra parole, rappresentazioni e interazioni, getta luce sulle relazioni tra due mondi apparentemente distanti, ma intrecciati da secoli: la Turchia ottomana e repubblicana e l’Italia, cuore del Mediterraneo europeo.
[ Andrea Riccardi ]