La giovane è stata evacuata dalla Striscia con una figlia di 3 anni e incinta della seconda: «L'anno scorso ho incontrato papa Francesco, il suo amore resterà un simbolo di unità e speranza»
«Quando vedo i miei parenti in videochiamata, quasi non li riconosco: le persone a Gaza sono diverse da come le ricordo. Hanno i volti scavati, gialli, sono curve». Weam ha solo 21 anni, ma ha attraversato drammi che raramente si affrontano in una vita intera. La nascita di una figlia disabile - malata di linfangioma - lo stesso giorno dell`esame di maturità. I pellegrinaggi a Gerusalemme per curarla, quando aveva appena 19 anni, da sola: perché solo la mamma aveva il permesso di uscire da Gaza per accompagnare la piccola.
Poi, il 7 ottobre. La fuga dalle case, la vita nelle tende. Le bombe che cadono e nessun luogo è sicuro. Persino la scuola usata come rifugio diventa bersaglio. E a pochi giorni dallinizio della guerra, l'uccisione della sua migliore amica, con tutta la famiglia, in un bombardamento che Weam aveva ascoltato sperando che non morisse nessuno: «lo immaginavo Rana in un vestito da sposa e invece l'ho vista avvolta in un lenzuolo bianco».
In quei giorni, negli ospedali di Khan Yunis, colmi di feriti, nessuno si occupa più della sua piccola disabile. Ma lei e la bimba sono "famose" in quei luoghi, per cui viene segnalata all'organizzazione Gaza Kinder Relief per l'evacuazione attraverso l'Egitto. «La notte prima di partire, attraverso il valico di Rafah, i bombardamenti erano così forti - i sibili poi le esplosioni - che pensavo che saremmo morti lì tutti stretti tra noi nella tenda».
Incinta, Weam ha nascosto la gravidanza per paura di non avere il permesso di partire e curare la prima figlia. Ha camminato a lungo, tra le urla, il terrore e le lacrime con la bimba di tre anni in braccio e l`altra nel grembo, fino al valico di Rafah.
Weam racconta in un corretto inglese, come un fiume in piena. Ci troviamo nell'appartamento di Trieste dove vive da un anno con le due bimbe grazie a un'iniziativa dell`Ospedale pediatrico Burlo - promossa da Marino Andolina, medico con esperienza nella cooperazione internazionale - cui ha collaborato anche l'organizzazione Save a Child. Attorno a lei si è creata una nuova famiglia, composta da quattro volontari della Comunità di Sant'Egidio, pronti ad aiutarla nelle necessità pratiche di fare la spesa e portare lei e le bimbe all'ospedale (anche la seconda figlia è nata con un problema genetico, che sta curando). Ma con la "famiglia allargata" Weam condivide anche momenti di semplice stare insieme, come la pizza la domenica sera.
«La prima volta che l'ho incontrata mi sembrava di essere in guerra», racconta Federica, volontaria di Sant'Egidio, «in Questura c'erano anche altre sette famiglie, tutte con bimbi a cui mancavano arti: una o anche entrambe le gambe». Poi gli amputati sono stati trasferiti in città in cui hanno strutture ospedaliere in grado di offrire protesi. «Quando il capo della comunità islamica di Trieste ci ha chiesto se potevamo prenderci cura di Weam - che allora era sola con due bimbe, solo dopo è arrivato il marito - ci è sembrata una sfida troppo grande», dice, «ma insieme siamo riusciti a fare quello che pareva insormontabile». Sant'Egidio ha anche reso possibile l'incontro di Weam con papa Francesco durante la sua visita a Trieste a luglio del 2024, che la ragazza ricorda come un «momento di grande pace» che le ha lasciato «un impatto indelebile, di saggezza, umanità»: «Era un ponte tra i cuori, a prescindere dalla diversità delle religioni e delle culture. Il suo amore resterà un simbolo di unità e speranza».
«Tutto è nato con una cena organizzata nella nostra Casa dell'Amicizia», racconta Loredana Catalfamo, responsabile della Comunità di Sant'Egidio di Trieste: «Le otto famiglie ferite dai bombardamenti si erano ritrovate attorno a un tavolo riempito di pietanze rigorosamente palestinesi, cucinate da un'amica siriana».
Oggi Catalfamo fa da nonna alle bambine di Weam, giocando soprattutto con la grande, che nonostante non possa per ora parlare a causa della sua patologia, è incredibilmente sveglia. Weam si commuove mentre racconta dei sensi di colpa che ha nei confronti della famiglia di origine che si trova ancora a Gaza: «Quando parlo con mia madre ho paura di chiederle se ha della farina per fare il pane. Ho paura che mi dica di no. E io da qui posso fare poco perché anche se raccolgo soldi da amici e conoscenti non sono quasi mai sufficienti per i prezzi altissimi che ci sono lì, a causa del blocco degli aiuti».
Quando piange Federica la lascia sfogarsi, poi si avvicina e l'abbraccia. E allora Weam ride anche, perché occorre vivere, nonostante tutto.
[ Ludovica Jona ]